LA COMUNICAZIONE NON VERBALE (QUELLA SERIA, IN SEDUTA. NON LA QUALUNQUE, INFLAZIONATA E SVENDUTA IN GIRO, TANTO PER … O SOLO PER …FARE SOLDI)

Come promesso nel post ‘psycho-colloqui’, voglio ora occuparmi di focalizzare l’attenzione, riguardo al colloquio in seduta, sugli ‘aspetti non detti a parole’ (i toni, il ritmo dell’eloquio, l’atteggiamento comunicativo, il respiro, le pause, ecc.). Ordinariamente tutto ciò porta il nome di ‘comunicazione non verbale’ ma siccome – come si sarà capito dal titolo polemico – sono infastidita dall’aria fritta venduta da chi, senza reali competenze, spaccia corsi per dispensare trucchetti del tipo ‘capisci l’altro senza che se ne accorga’, o ‘come vendere di più leggendo la postura’, oppure ‘attenzione alle braccia conserte, il cliente si sta chiudendo, lo stiamo perdendo, lo stiamo perdendo!’… insomma avete capito… per protestare contro questo filone svilente, cambio nome al concetto, nella speranza di restituirgli dignità e utilità terapeutica. Il mio intento è questo, quantomeno, spero di riuscirci.

Voglio anche approfittare per fare un piccolo cenno al modello di psicoterapia in cui mi sono specializzata: la Psicoterapia Funzionale. Credo sia l’approccio teorico-tecnico che più di altri ha cura dei segnali corporei, sia a fini diagnostici, che come indicatori/promotori di cambiamento terapeutico. Ho scelto questa scuola dopo anni che già lavoravo da psycho e questi concetti li avevo individuati sul campo come preziosi. Grazie a questa formazione, e al mio percorso di psicoterapia personale (con uno dei Terapeuti più in gamba che io abbia mai conosciuto, tra i fondatori del modello Funzionale, Giuseppe Rizzi, ‘il mio Giuseppe’), ho certamente affinato le competenze e la pratica clinica. Se state cercando una scuola davvero formativa, questa lo è. Scusate la digressione ma mi è venuta naturale, dato il tema. Torniamo a questo post. Impossibile esaurire l’argomento, ma almeno cominciamolo.

Vado di esempio. Enrico – nome di fantasia – viene da me da poche settimane, porta la sua richiesta di ‘riuscire a sbloccarsi’ perché non procede più con gli esami all’università da almeno un anno, e non ha idea del perché gli stia capitando questo. Durante i nostri colloqui, chiedo ad Enrico se prova ansia al pensiero di sostenere un esame, e lui risponde istintivamente ‘no no, non ho mai provato ansia!’, dunque gli domando ‘adesso, qui, come ti senti?’, la sua risposta, sempre immediata, e con una parlantina veloce, è: ‘bene bene, sono tranquillo qui a parlare con te. Ma comunque io sono tranquillo praticamente sempre!”. Continuo ad approfondire: ‘Enrico, ti vengono in mente situazioni della tua vita in cui sei stato, o sei, particolarmente calmo, o particolarmente agitato?’; lui, sempre con un tempo di reazione pari a zero virgola, e quasi mangiandosi le parole da quanto le pronuncia sempre in fretta: ‘ma no, no no, ti ho detto, tendenzialmente sono calmo, quindi agitato o in ansia proprio no, ma molto calmo non saprei, direi di no comunque, in che senso molto calmo?’. Ecco: il punto è la discrepanza tra ciò che Enrico prova, ciò che riconosce di provare, e ciò che pertanto comunica verbalmente (a sé, e a me) rispetto a cosa prova. Noto la discrepanza, non di certo per metterlo in castagna, o per stupirlo con le mie rivelazioni, ma proprio al fine di poterlo aiutare. Se dovessi basarmi solo sulle parole con cui Enrico si percepisce e si descrive, terrei per buono che tenda a non andare in ansia: va da sé che non lo aiuterei ad affrontare l’ansia che invece lo pervade, che a me è ben visibile, ma che lui non riconosce come tale, perché fa ormai parte di lui, è la sua ‘normalità’. Visto che invece voglio (anzi devo) aiutarlo, visto che posso (anzi devo) avere lo sguardo su Enrico intero, non posso fare a meno di notare come il suo corpo parli diversamente dalla sua mente, e cosa significhi questa divergenza: Enrico non si concede tempi di reazione alle domande (dunque non si prende il tempo di ascoltarsi per capirsi), non si prende lo spazio di frasi più lunghe (cioè anche più lente, in una calma più reale), non si prende pause per respirare, ha un ritmo di respiro leggero ma accelerato (non si dà tregua, non può concretamente accedere ad una calma reale, e in effetti non sa cosa sia, come dice); non contattando le proprie emozioni, Enrico non può utilizzare il suo sentire per (ri)orientare i suoi comportamenti. Come vi dicevo in questo post, i pensieri hanno la funzione di tradurre, in parole, le nostre emozioni e le nostre sensazioni, cioè cosa sentiamo, al fine di farci scegliere come agire/reagire nelle varie situazioni di vita; se per parlare di noi, scolleghiamo le parole dalle nostre emozioni e sensazioni, stiamo tecnicamente parlando di noi…in modo infondato! O meglio, stiamo solo esprimendo le nostre idee su di noi (giudizi, interpretazioni) … tanto varrebbe chiedere a qualcun altro come stiamo, cosa vorremmo, come dovremmo agire! Un primo intervento da attuare con Enrico è perciò accompagnarlo nell’esercitarsi a descrivere come sta, ancorandosi alle proprie sensazioni ed emozioni, usando queste per scegliere le parole che davvero lo descrivano. Solo in una seconda fase, quando Enrico sarà abbastanza allenato nel percepirsi e riconoscersi, potremo insieme tradurre in parole il senso della sua ansia: quali messaggi, il suo corpo in ansia, sta cercando di dare ad Enrico? La domanda potrebbe anche essere: da cosa Enrico è spaventato? Quali sue paure, non abbastanza ascoltate, si sono trasformate in ansia cronica? E in una fase conseguenziale, potremo insieme utilizzare questi contenuti decodificati per ri-orientare Enrico verso i propri comportamenti: rispetto alle modalità con cui studia? Rispetto al suo concedersi/non concedersi pause? Rispetto alle scelte di studi fatte? Rispetto a come affrontare il futuro? Rispetto a come comunicare di sé ai suoi familiari?… Queste domande possono essere tante ma sceglieremo quelle giuste, cioè quelle utili ad Enrico, appunto a tempo debito; ora siamo nell’intervento iniziale del suo allenamento a percepirsi. E che questo sia un passaggio fondamentale in cui accompagnare Enrico, lo abbiamo capito semplicemente cogliendo la discrepanza verbale/non verbale. Mica male eh?! Certo potete dirmi che, non sapendo ancora come andrà, cioè se così aiuterò davvero Enrico, sto parlando a vuoto. Ma ho voluto portarvi l’esempio di Enrico, che seguo solo da alcune settimane, proprio per sottolineare come in pochissime sedute già ci siano possibilità rilevanti di cogliere l’ ‘essenza del perchè’ il/la Paziente ci chieda aiuto, poi da lì (come vi dicevo sempre in questo post, in cui vi parlavo dei cerchi concentrici attorno al sasso lanciato nel lago), andiamo ad allargare lo sguardo, lavorandoci attorno. E’ anche un mestiere da artigian*, il nostro di psycho: usiamo le teorie che abbiamo studiato (e per cui ci aggiorniamo costantemente, vedi anche qui) per comprendere di cosa ci sia bisogno per quella particolare Persona, in quel momento; utilizziamo gli strumenti che, con la pratica, abbiamo imparato a scegliere, oltre che a maneggiare con confidenza, così che siano adatti per quella Persona, in quel momento; e grazie all’esperienza che si sedimenta man mano, arriviamo ad essere non solo efficaci, ma anche efficienti, cioè a fare un buon lavoro, ottimizzando i tempi (i nostri, di diagnosi, intendo; quelli di prognosi comprendono più variabili non dipendenti da noi…). Che mestiere meraviglioso è!

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