POTERE E PERICOLI DEL CONTROTRANSFERT

Non nascondo un po’ di timore reverenziale nel fare i conti con questo argomento. Non ne parlerò con un approccio da manuale (in generale, ormai sapete che non è questo il taglio ed il senso del mio blog). Vorrei piuttosto, come cerco di far sempre, dare spunti (anche da voi mi arrivano degli input molto interessanti, vedo che state prediligendo la via discreta del contatto mail – a me fa piacere lo scambio in ogni forma, purchè rispettoso, ovvio – quindi approfitto per ringraziarvi delle attenzioni che state dando ai miei post, trasformandoli in opportunità reciproche di nutrimento).

Torniamo al tema. Il controtransfert – lo dico soprattutto per chi non è del mestiere, cerco di comunicare in un modo trasversale, valevole per qualsiasi modello teorico di riferimento – è ciò che ogni Paziente ‘muove’ in noi psycho: le nostre emozioni, le nostre sensazioni, i nostri ricordi, le nostre frustrazioni, le nostre paure, i nostri desideri …

Per il percorso terapeutico dei/delle nostr* Pazienti, il nostro controtransfert può essere un ostacolo o un alleato preziosissimo. E può anche accadere spesso che, da ostacolo, si trasformi in alleato: dipende da quanta consapevolezza ne abbiamo noi psycho (che maturiamo man mano, anche grazie alle supervisioni e alle intervisioni, oltre che naturalmente alla nostra psicoterapia personale).  

Le corde che quel/quella Paziente può far vibrare in quello/quella psycho, durante le sedute, stanno in un universo infinito di situazioni. Provo qui a incasellarle in quattro possibili forme di controtransfert.

Controtransfert caso 1): una forma impropria di controtransfert, mi riferisco a limiti che sentiamo nostri, non collegati ad una Persona che ci chiede aiuto, ma che riguardano noi psycho e il nostro rapporto con un certo tema-di-Dolore, per qualche motivo collegato alla nostra storia. Limiti legittimi che possono restare per sempre, oppure che ci accompagnano per un periodo specifico della nostra vita (professionale). Esempio: ho avuto il privilegio di supportare un collega (che non conoscevo, ma che mi scelse per avermi al suo fianco nel lungo periodo di malattia, e poi morte, del suo compagno) che, a distanza di anni da questo suo evento luttuoso, sta considerando ora di poter riprendere a lavorare con Persone che stanno fronteggiando il Dolore della perdita del/della partner. Fino a poco tempo fa, era ben consapevole di non sentirsela ancora di approcciarsi a questo tema-di-Dolore, in veste di psycho. Inutile specificare che i limiti di cui siamo consapevoli non sono solo legittimi ma anche indiscutibili e intoccabili…o meglio, toccabili solo se e quando siamo pront* a farlo (chiedendo aiuto).

Controtransfert caso 2): controtransfert che è già più corretto denominare così, rispetto al caso precedente, si ha perchè la storia della Persona risuona con la nostra. Abbastanza facile che, da psycho, ce ne accorgiamo; meno facile capire se e come questo condiziona il nostro intervento terapeutico, ma fondamentale riuscirci. Esempio: un’amica psycho, in un’intervisione, ci racconta dei brividi di freddo e della pelle d’oca che le vengono ogni volta che questa sua nuova Paziente le parla della propria madre; questa giovane donna è molto legata alla madre e la idealizza, ne parla come di una persona dolcissima, senza descrivere alcun atteggiamento dolce, la racconta come una persona empatica, narrando in realtà episodi da cui emerge tutt’altro che empatia, la vede come una madre attenta alle sue esigenze, ma non riesce a recuperare ricordi che mostrino queste attenzioni per lei. La mia amica psycho sente una grande rabbia verso questa madre, che le ricorda tanto la propria genitrice, decisamente anaffettiva – e di questo è perfettamente conscia; si accorge però, nel condividere questi suoi vissuti con noi collegh*, che i suoi brividi e la pelle d’oca, più che essere segni di questa rabbia, sono indicatori di paura, ed emerge infatti che la sua paura è soprattutto adesso di condizionare questa Paziente nelle scelte, al contempo di non riuscire ad aiutarla a trovare la propria via, di non essere abbastanza incisiva, dovendo controbilanciare il timore di influenzarla. Giada (nome di fantasia di questa mia amica e collega psycho) ha da ragazza dovuto allontanarsi fisicamente dalla mamma, che sentiva troppo distante emotivamente, per ritrovare, vivendo lontana 1000 km, ‘le misure nelle sue Relazioni’, che rischiavano altrimenti di polarizzarsi o in un estremo distacco, o in desideri fusionali con l’Altr*. Giada è adulta, ha un’esperienza clinica rilevante e ha fatto tanto lavoro terapeutico su di sé, anche per recuperare nel tempo un rapporto con sua madre – e con i rispettivi limiti – più sereno e soddisfacente possibile. Eppure adesso questa Paziente le sta facendo risuonare corde profonde, tanto da temere di inficiare l’intervento ‘infilando parti di sé’. Possiamo invece star tranquill*: Giada ha saputo dare spazio alle sue sensazioni, alle sue emozioni, ai suoi timori, ha saputo esplicitarli, si è presa il tempo per ascoltare la Paziente e poi per ascoltarsi, e poi per farsi ascoltare, condividendo il suo vissuto con noi collegh*. Ciò le ha permesso di riconoscere la paura, oltre alla rabbia che aveva già ben individuato da sola. Ciò le permetterà di non agire in base alla sua rabbia o alla sua paura, bensì si muoverà sulla base dei bisogni della sua Paziente, che potranno emergere liberamente, che potranno trovare una propria direzione, con l’accompagnamento di Giada, dato che i bisogni di Giada hanno già un loro spazio (interno ed esterno) in cui trovare accoglienza, riconoscimento, confronto, nutrimento, guida.

Controtransfert caso 3): i vissuti del/della Paziente ci toccano nostri ‘nervi (ancora) scoperti’. A differenza del caso precedente, qui non c’è una storia della Persona,in cui troviamo somiglianze con la nostra storia, ma ci sono degli atteggiamenti, dei tratti caratteriali, delle modalità, del/della Paziente, che ci infastidiscono, o ci spaventano, o ci caricano di tristezza, o altro ancora, per cui siamo a rischio che la nostra lucidità da psycho scarseggi e che il nostro intervento terapeutico sia contaminato, per cui meno efficace. Non voglio parlare di rischio di danno, o di totale inefficacia, dell’intervento: questa evenienza ci sarebbe solo in caso di collega psycho ‘menefreghista etic*’ (uso parole un po’ più eleganti di quelle che mi verrebbero dalla pancia), ma allora il problema è ben più grande, stiamo avendo a che fare con qualcun* che non dovrebbe nemmeno fare questo mestiere…per carità, purtroppo le personacce esistono in tutte le categorie…comunque qui faccio invece riferimento alla stragrande maggioranza di collegh* che sono professionist* che operano secondo coscienza.  Chiarito questo, la soluzione per lavorare al meglio con i/le nostri/e Pazienti, anche quando ci ritroviamo in questo tipo di controtransfert, è ancora l’uovo di Colombo: nostra terapia personale, supervisione, intervisione. Esempio: vi porto me stavolta (me la sento perché questo nervo per me non è più scoperto): anni fa, trovavo durissima occuparmi di Pazienti che mi dicevano continuamente quante poche energie sentissero di avere, quelle Persone che mia nonna (per me una madre) definiva ‘nate stanche’ (e penso in questa espressione già intravediate qualcosina dei motivi per cui i miei nervi erano scoperti, le origini erano ovviamente dentro casa mia). Sentivo che mi restava una grande agitazione e un forte fastidio dopo sedute con Pazienti che mi avviluppavano nella loro enorme, perenne e irrimediabile, stanchezza. Non era sostenibile, davvero, non riuscivo! Per fortuna il lavoro del mio supervisore fu più facile del lavoro che sentivo di dover fare io (o forse il mio supervisore era più bravo di me, lo ammetto), fatto sta che individuò in fretta cosa mi caricasse di agitazione e fastidio: il mio conflitto interno per non giudicare! Da psycho, sapevo e so bene che giudicare il/la Paziente non favorisce un sano intervento terapeutico; io combattevo contro la mia voce giudicante, non volevo ammettere che esistesse, per cui mi stavo impantanando da sola. Erano voci giudicanti che avevo già, nel corso della mia esistenza, sia assecondato che combattuto, in ambivalenze ad oltranza: mi ero da sempre ‘data da fare’, anche troppo, sia perché non avevo scelta, sia perché non mi sapevo accettare nel ‘non fare’ (o mi giudicavano per questo, dunque avevo appreso a giudicarmi io, sempre), e solo l’idea di sentire la stanchezza mi terrorizzava, non potevo permettermelo, o almeno ne rimasi convinta per molti anni. Quando cominciai ad aver a che fare con Pazienti in questo ‘mood di stanchezza’, antitetico al mio ‘mood stanchezza-mai’, evidentemente tendevo a giudicarl* senza volerlo fare e senza riconoscere di farlo; questo subdolo conflitto interiore mi colmava di nervosismo, di insofferenza, finchè il mio supervisore non lo portò fuori dai nascondigli in cui si intrappolava e mi permise di liberarmene. Ora in supervisione potevo tranquillamente esclamare: ‘porca miseria, che fatica con Agata che si convince sempre di non farcela, e poi tra l’altro ce la fa sempre!’, o addirittura: ‘ma quanta stanchezza mette addosso a me Daniele a fare così, altrochè lamentarsi lui, mi devo lamentare io di non poterne più!’, o persino: ‘sono stanchissima, ho bisogno di ferie!’…Insomma, spero si sia capito che feci un nuovo step, umano e professionale, con cui esorcizzai qualche altro mio mostro interno e questo portò effetti benefici anche nei percorsi con i/le Pazienti.

Controtransfert caso 4): (per alcune scuole di pensiero, è l’unico vero controtransfert, ma qui non mi importa entrare nel merito), si ha quando sentiamo qualcosa che non è nostro, ma che il/la Paziente ci ‘butta addosso’, inconsapevolmente, e che addirittura possiamo sentire noi, al posto del/della nostr* Paziente. Esempio: Romina (sempre nome di fantasia) mi racconta di sognare continuamente posti chiusi, senza porte né finestre, e di essere dentro a queste stanze, da sola. Le chiedo ‘cosa provi nel sogno?’, lei: ‘nulla’, le chiedo allora: ‘cosa provi quando ci ripensi, o mentre me lo racconti?’, lei: ‘nulla’, con tono distaccato, come se parlasse di essere andata a far la spesa. Io invece provo un senso di soffocamento che non mi appartiene affatto, che non riconosco come mio, che non è mio, e glielo dico: ‘sai che io mi sento soffocare solo a immaginare di trovarmi nel tuo sogno?’, Romina ha un sussulto, mi rivolge uno sguardo che mi pare commosso e poi si ripiega su se stessa, iniziando a singhiozzare e a piangere copiosamente. Dopo un po’ mi dice, con un viso disteso: ‘sai che ora respiro?’. Attenzione, non mi stava mentendo (vedi anche questo post) quando mi ha detto di non provare nulla, ma era come in apnea, a forza di trattenere abitualmente le sue ansie per non crollare, e semplicemente così non riusciva ad accedere alle sue emozioni. Ma sapeste quante volte capita di non essere in contatto con le nostre emozioni! Anche a questo serviamo tanto noi psycho: in un precedente post (che potete leggere qui) ho parlato del concetto che ho definito lucidità-supplente di noi psycho; in questo articolo vi ho or ora accennato a quella che chiamo emotività-supplente, che noi psycho attiviamo (automaticamente, grazie alla nostra empatia ben allenata) per fare da ponte tra il/la Paziente e le sue emozioni, quando le vie si sono precedentemente interrotte. E questo controtransfert qui è veramente il più fedele alleato, in terapia direi l’assistente modello per antonomasia!

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