QUANDO I/LE PAZIENTI METTONO SALE SULLE NOSTRE FERITE

Se siamo genitori di adolescenti, capiamo in un secondo cosa vuol dire sentirci come se mettessero il sale sulle nostre ferite narcisistiche. Mi piacerebbe tanto appropriarmi di questa espressione, in realtà è una libera citazione della mia Amica e collega-super-psycho Fabiola Scarpetta.

Siccome sono mamma di adolescenti, oltre che psycho (e pure di adolescenti, non solo di adulti), immaginate bene che, di esperienza con ferite narcisistiche che bruciano, ne ho da vendere!

La mia Paziente quindicenne (a cui voglio un mondo di bene) che mi dice: ‘Anna, non volevo venire, non serve a niente che continui questo percorso!’, o un mio nuovo Paziente che al terzo incontro mi dice: ‘speravo in una cosa diversa, non penso di aver bisogno di lavorare su di me in questo modo’, così come mia figlia che mi urla che sono la peggiore mamma del mondo, o mio figlio che sentenzia che non capisco niente…sono solo esempi quotidiani di sale lanciato come pugni di riso ai matrimoni, e che mira a colpire.

Ma come si fa a stare in tutto questo, non solo senza soccombere, ma tenendo anche a mente che l’obiettivo è aiutare chi in quel momento potrebbe invece ferirci? Come si può riuscire a restare riferimento, contenitore, guida di chi pare voglia remare contro al fatto stesso di farsi aiutare?  E io mi ripeterò – scusate, me ne rendo conto – per noi psycho la terapia personale non è solo uno strumento di lavoro ma è proprio un pre-requisito per svolgere questo mestiere!

La consapevolezza che acquisiamo (non una volta per tutte ma durante il corso della nostra esistenza) ci deve rendere abili e allenat* a distinguere ‘ciò che è nostro da ciò che è dell’Altr*’, a distinguere ciò che ci viene recriminato per il ruolo che rivestiamo da ciò che riguarda personalmente noi, a distinguere ciò che la Persona dice da ciò che vorrebbe invece dirsi e dirci.

Se la storia personale dell* psycho, la sua storia di bambin*, di ragazz*, è costellata di svalutazioni, che sono ferite narcisistiche, e se lo/la psycho non ha curato queste sue ferite, il rischio è che il sale ‘svalutante’ del/della Paziente, che pontifica ‘non serve a nulla che continui con te’, faccia bruciare un mucchio queste ferite, senza che lo/la psycho si accorga dei veri significati che queste parole hanno per il/la Paziente che gliele rivolge. J. Krishnamurti avverte: ‘se non siamo consapevoli, le nostre azioni sono reazioni alle ferite che abbiamo accumulato nella nostra storia’. La mia giovane Paziente che brontola che non serve a niente continuare il nostro percorso, mi sta al contempo confessando che di me si fida e che con me può anche lamentarsi, che finalmente è in una Relazione in cui può non sentirsi responsabile del buon funzionamento delle cose tra lei e me (leggi anche qui), può almeno con me smettere di stare attenta a quel che dice e a come lo dice, dato che invece a casa le fanno pesare ogni mezza parolina, che pare sempre pronunciata fuori luogo, o fuori tempo, o con l’atteggiamento sbagliato. Mi parla di non voler venire, ma viene, resta, torna, e non manca mai un appuntamento, forse non è ancora convinta che davvero potrà guarire dall’anoressia, ma intanto sa che sta trovando per la prima volta nella sua vita uno spazio di accoglienza, che accoglie amorevolmente persino la negatività (puoi approfondire in questo post).

Se da psycho sono cresciut* con adulti di riferimento polemici, critici, rifiutanti, e non mi sono affrancat* da questi vissuti – ciò a dire se non riconosco che il/la Paziente rifiutante e polemic* giudica il mio operato per una sua criticità, una sua modalità disfunzionale, e non come attacco personale a me – rischio di non saper fare l’unica cosa che forse può essere davvero utile per quel mio Paziente che alle prime sedute soppesa il mio intervento: rassicurarlo che il nostro non sarà uno scontro, come probabilmente spesso nella sua vita, ma un Incontro, un incontro in cui potrà trovare lo spazio per raccontarsi, costruire la fiducia per raccontare sé; non dovrà litigarsi tutto questo, gli verrà dato ascolto, attenzione, accoglienza, senza dover prima vincere una guerriglia per ottenere ragione.  

Anche da genitori (di adolescenti) siamo – come anticipavo – nel mirino degli spari dei/delle nostr* figli e figlie. Vero che non possiamo tutt* andare in terapia (anche se verrebbe da chiedersi ‘e perché no?!’ ma ok sono di parte) però l’esercizio dei distinguo (così mi piace chiamarlo di solito) è sempre valido e, con tanto allenamento, è efficace; distinguo le parole che mi stai dicendo da ciò che vuoi dirmi davvero: non è il tuo vero obiettivo – figli* – convincermi, in una crisi di rabbia, che sono una pessima madre (se fosse questo, non ci sarebbero ad esempio tutti gli altri momenti di vicinanza, di condivisione, di scambio), ma è tuo obiettivo di questo momento di crisi farmi arrivare la tua sofferenza, le tue paure, le tue frustrazioni, e se per ora me le sai comunicare in questo modo, va bene così, le accolgo. Non posso prenderle ‘sul personale’, semplicemente non avrebbe senso né utilità; ciò non vuol dire che debba essere immune dal mettermi in discussione, tutt’altro! Ma un conto è mettermi in discussione quando mia/mio figli* mi dice che nella tale o tal altra situazione, ad esempio, non si è sentit* capit*, un conto è finire nel buco nero del rimuginìo e della tristezza/rabbia, a mia volta, perché mi ha tacciato, in episodi di sconforto, di demotivazione, di collera, di essere un cattivo genitore, soprattutto se – ribadisco – la nostra Relazione non si muove solo esclusivamente su questo binario, ma conosce anche molto altro (risate, coccole, confronti costruttivi, leggerezza, ecc).

Dunque, parola chiave: distinguere! Ciò che mi porta il/la Paziente, il/la mio/mia figli* adolescente, è roba sua, non roba mia; l’effetto che fa su di me diventa sale sulle mie ferite se le mie ferite non le ho riconosciute e curate. Altrimenti l’effetto che fa su di me è quel controtransfert buono- anzi prezioso – di cui vi ho parlato in questo post.

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