LE REGOLE TRA PSYCHO E PAZIENTE


Partiamo col dirci qualcosa di ovvio: dobbiamo conoscere il Codice Deontologico e le norme vigenti, in merito alla nostra attività professionale. Non intendo che dobbiamo sapere a memoria cosa recita il tale o tal altro articolo; ricordo però che è nostra responsabilità informarci, verificare i dubbi, attenerci integralmente ad obblighi e divieti, far sì che il Consenso dei/delle Pazienti sia ‘Informato’ di nome e di fatto. Tutto ciò, altro non è che: ETICA!
Non mi addentro dunque nei contenuti che trovate nelle fonti canoniche (come i siti degli Ordini regionali, nazionale, ecc). Qui trovo più sensato parlarvi di quelle ‘regole’ da condividere con le Persone nostre Pazienti, al fine di permettere che si affidino a noi, per lasciarsi guidare verso gli obiettivi specifici che andremo a concordare.
Una prima regola da tenere a mente, e da comunicare esplicitamente al/alla Paziente, è proprio che gli obiettivi si concordano. (E per concordarli, dobbiamo cercarli insieme perché spesso la Persona non li ha chiari, o se ne pone di irrealizzabili, ma di questo parleremo in un prossimo post; potete anche leggere questo per ulteriori spunti sull’argomento).
Una seconda regola è che: guidiamo noi. Questo non va esplicitato, va fatto! (Vedi post sulla Relazione a-simmetrica). Ma può accadere che sia utile verbalizzarlo alla Persona in alcune situazioni, anche apparentemente banali, che ci aiutino a portare il/la Paziente verso la Fiducia di appoggiarsi a noi. Alcuni piccoli esempi: al/alla Paziente che cerca l’orologio per capire se ha ancora tempo per restare o se si sta dilungando troppo, possiamo semplicemente dire ‘tranquillo/a, ci penso io, qui non ti devi preoccupare del tempo, me ne occupo io ”’; al/alla Paziente che si scusa perchè piange, pensando che non dovrebbe farlo perché dovrebbe invece controllarsi, possiamo serenamente dare rassicurazione come ‘non scusarti, puoi farlo, puoi anche piangere, forse in altre situazioni senti di dover trattenere il pianto ma qui puoi lasciare libere le lacrime’; rispetto alla Persona che ci richiede una frequenza di sedute che non riteniamo adeguata (perché insufficiente o eccessiva – meno spesso, ma può capitare anche il secondo caso), è nostro compito indirizzarla verso la frequenza che riteniamo appropriata (della giusta frequenza, tarata sulle situazioni specifiche, potremo parlare in un prossimo post); al/alla Paziente che chiede di ridurre la frequenza delle sedute, per (sopraggiunte) difficoltà economiche, possiamo ribadire che la frequenza deve essere opportuna per il percorso in atto e che potrà pagare le sedute man mano, al momento quelle che riesce a sostenere, poi senza fretta le altre che sia necessario fare. (N.B. In vent’anni di lavoro, credo sia capitato solo con un paio di Pazienti che non abbiano saldato delle sedute; per il resto, ogni volta che abbiamo preso accordi per un pagamento distribuito nel tempo, al fine di incontrare le reali necessità delle Persone, sono sempre state di parola). Potrei citare mila altri esempi di momenti della seduta in cui possiamo trasmettere il messaggio ai/alle Pazienti che siamo noi a guidarl* verso gli obiettivi concordati (concordati ad inizio percorso, e rivisitati in itinere) ma, per non dilungarmi, faccio qui invece qualche esempio di ‘fisime’ (come le chiamerebbe mia nonna) che mi capita di leggere in giro e che a mio parere sono solo formalismi fini a se stessi, che non servono a nulla: decidere che solo noi apriamo la porta, non toccare mai il/le Pazienti, non rispondere mai ai messaggi di Pazienti (vedi qui mio post in proposito), non dare mai alcuna informazione personale che ci riguardi (della serie: ‘lei ha figli, dottoressa?’, ‘no, non parliamo della mia vita privata’), ecc. ecc.
Colgo spunto da quanto appena scritto per citare una terza regola, sulla nostra reperibilità fuori dalla seduta (che come vi dicevo, potete approfondire qui): spiego sin dalla prima seduta alle Persone che, se ne sentono l’esigenza, possono scrivermi e che ‘quando leggo – non necessariamente in tempi brevi – vuol dire che posso, dunque non disturbano’. Con questa piccola frase la Persona si sente accolta, rassicurata ma anche autorizzata e guidata da noi, cosa – ripetiamolo pure – fondamentale.
Cito una quarta regola, relativa a quelle sedute che, per svariati motivi, saltano all’ultimo. Non vi parlo di come dobbiamo comportarci ma del senso che il nostro comportamento deve avere. Quando collegh* psycho mi chiedono come mi muovo in queste circostanze, rispondo sempre che far pagare o non far pagare la seduta che una Persona ci disdice all’ultimo (o anche un più spudorato bidone) credo debba avere, in ogni caso, un significato terapeutico. Casca a pennello che vi racconti di un Paziente con cui ho a che fare ultimamente, molto distratto e trascurato, sconclusionato nella progettualità, con cui stiamo lavorando affinchè queste sue modalità non lo condizionino più, dato che si è reso consapevole della disfunzionalità, in particolare nelle sue Relazioni di coppia: abbiamo concordato che paghi anche le sedute di cui si dimentica, non certo con intenti punitivi ma per accompagnarlo a dare – e dimostrare – valore, a ciò a cui sente di tenere. Vi racconto altresì di una mia Paziente con forti tendenze ansiose e di controllo ossessivo: la prima (e per ora unica) volta che le è sfuggito l’orario della nostra seduta (peraltro la vedo in giorni e fasce orarie diverse perché lavora su turni), ho sinceramente esultato e l’ho incoraggiata a festeggiare! A lei certo non ho fatto pagare il bidone: finalmente si era potuta concedere un ‘buco del controllo’, facendo esperienza diretta del fatto che non sia successo nulla di irrimediabile e che nessuno le abbia puntato il dito contro per questo (come accadeva puntualmente con i suoi genitori quando era bambina).
Potrei andare avanti con un elenco di regole ma in realtà credo di poter concludere con questa sintesi: teniamoci a mente di non fare interventi fini a se stessi, che le azioni vanno pensate per ogni Persona, che i contenuti e i modi di ciò che comunichiamo devono avere un significato terapeutico; e attenzione che non succeda di irrigidirci in atteggiamenti standard e abitudinari che abbiano più lo scopo di nascondere o tenere a bada le nostre (lecite) insicurezze di psycho (su cui non dobbiamo mai smettere di lavorare).

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